Pessoa, in una notte insonne

Ho riscoperto il piacere della lettura. Dopo i miei anni giovanili, e la sbornia di letture, da Shakespeare a Dostoevskij, da Proust a Kafka, passando per moltissimi altri, ecco che da qualche tempo mi sono rimesso a leggere.
Non è quella febbre d'allora, ma è una cosciente emozione di ritrovare in altri autori me stesso. Sarà che la palude di Twitter mi ha lasciato disgustato, col dubbio di essere rimasto l'unico a sentire, a provare certe cose.
Per fortuna non è così, e dopo Calvino, Borges, Musil, Kafka, Platonov, De Unamuno, Brodskij, Dostoevskij, Cechov (alcuni già estensivamente letti, altri nuove conoscenze), eccomi approdare a Pessoa, che non conoscevo.
Mi lascia senza parole, è la poesia che incontra la filosofia; la psicologia (di cui sono dotati tutti i geni della letteratura), che scava in abissi di verità. Sono solo all'inizio, ma già conquistato per sempre.
Da " Il libro dell'inquietudine" un brano in cui la notte insonne, e quello stato crepuscolare della coscienza, permettono di sfiorare metafisiche certezze. Sono quei momenti, scanditi dal pendolo dell'infinito, in cui, trattenendo il respiro, si percepisce, si tocca, l'assoluto.


" L’orologio che è là dietro, nella casa deserta, perché tutti dormono, lascia cadere lentamente il chiaro quadruplo rintocco delle quattro del mattino. Non sono ancora riuscito a dormire, né spero di riuscirci. Senza che nulla trattenga la mia attenzione, da non farmi dormire, o mi pesi nel corpo, da non darmi quiete, giaccio – il silenzio spento del mio corpo estraneo –nell’ombra, che il vago chiarore dei lampioni in strada rende ancora solitaria. Per il sonno che ho, non so pensare; né so sentire, per il sonno che non riesco ad avere.
Tutto, intorno a me, è nudo astratto universo, fatto di negazioni notturne. Sono diviso tra stanchezza e inquietudine, e giungo a toccare con la sensazione del corpo una conoscenza metafisica del mistero delle cose. A volte mi si fa molle l’anima e allora i particolari informi della vita quotidiana mi fluttuano sulla superficie della coscienza, e faccio registrazioni contabili a galla della mia insonnia. Altre volte, mi desto dal pieno dormiveglia in cui ho ristagnato e immagini vaghe, di una tonalità poetica e involontaria, fanno scorrere sulla mia disattenzione il loro silente spettacolo. Non ho gli occhi completamente chiusi. Mi cinge la vista indebolita una luce che giunge da lontano; sono i lampioni pubblici accesi là sotto, sul ciglio deserto della strada.
Cessare, dormire, sostituire questa coscienza intermittente con migliori cose melanconiche sussurrate in segreto a chi non mi conoscesse!... Cessare, passare fluido e liquido, flusso e riflusso di un vasto mare, su coste visibili nella notte in cui veramente si dormisse!... Cessare, essere incognito ed esterno, movimento di rami in viali lontani, tenue cadere di foglie, avvertito più per il suono che per la caduta, alto mare sottile con zampilli in lontananza, e tutto l’indefinito dei parchi nella notte, perduti in grovigli continui, labirinti naturali della tenebra!... Cessare, finalmente finire, ma in una sopravvivenza traslata, essere la pagina di un libro, la treccia di capelli sciolti, l’ondulare del rampicante vicino alla finestra socchiusa, i passi senza importanza sulla ghiaia fina alla curva della strada, l’ultimo fumo alto del paesino che si addormenta, la frusta dimenticata del cocchiere sul ciglio mattutino del cammino… L’assurdo, la confusione, lo spegnimento – tutto fuorché la vita…
E dormo, alla mia maniera, senza sonno né riposo, questa vita vegetativa della supposizione, e sotto le mie palpebre inquiete si alza, come la schiuma quieta di un mare sporco, il riflesso lontano dei lampioni muti della via.
Dormo e non dormo.
Dall’altro lato di me, là dietro al luogo dove giaccio, il silenzio della casa raggiunge l’infinito. Odo cadere il tempo, goccia a goccia, e nessuna goccia che cade si sente cadere. Il cuore fisico mi opprime fisicamente la memoria, perduta nel nulla, di tutto quanto è stato o sono stato. Sento la testa materialmente posata sul cuscino su cui la tengo incavandolo. Il tessuto della fodera ha con la mia pelle un contatto di gente nell’ombra. Lo stesso orecchio, sul quale mi appoggio, mi si imprime matematicamente contro il cervello. Batto le palpebre dalla stanchezza, e le mie ciglia emettono un suono piccolissimo, inudibile, contro il biancore sensibile del cuscino alto. Respiro, sospirando, e la mia respirazione avviene – non è mia. Soffro senza sentire e pensare. L’orologio della casa, sicuramente là al fondo delle cose, suona la mezz’ora secca e nulla. Tutto è tanto, tutto è tanto fondo, tutto è tanto nero e tanto freddo!
Passo tempi, passo silenzi; mondi senza forma mi passano accanto.
Improvvisamente, come un bambino del Mistero, un gallo canta senza sapere della notte. Posso dormire, perché è mattina in me. E sento la mia bocca sorridere, premendo leggermente le pieghe morbide della federa che mi copre il volto. Posso lasciarmi vivere, posso dormire, posso ignorarmi… E, ad opera del nuovo sonno appena giunto che mi oscura, mi affiora alla memoria il gallo che ha cantato, o per davvero è quel gallo che sta cantando per la seconda volta. "

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