Vi sarà capitato ("Sarà capitato anche a voi"... era una canzone) certamente.
Cosa ? Non di avere una musica in testa (sì anche quello, ma lasciatemi continuare), ma di riflettere.
Riflettere... quando pensiamo, profondamente, stiamo riflettendo. Lo specchio riflette la luce, ma noi cosa riflettiamo ? La Realtà.
Noi cogliamo la Realtà proprio in quell'attimo in cui, inconsapevolmente, ci comportiamo come uno specchio.
Noi cogliamo la Realtà proprio in quell'attimo in cui, inconsapevolmente, ci comportiamo come uno specchio.
Per cogliere la Realtà, bisogna essere passivi, come una spugna. Dobbiamo esternarci da noi stessi, soprapensiero, vivi, ma assenti razionalmente; eppure vigili.
Dobbiamo lasciar correre i sensi : la luce che illumina quel cancello, e , dopo un po', l'ombra che si sposta lentamente, col passare dei minuti.
Dobbiamo lasciar correre i sensi : la luce che illumina quel cancello, e , dopo un po', l'ombra che si sposta lentamente, col passare dei minuti.
Osservare senza sovraimposizioni concettuali, il pensiero non deve avere uno scopo, un fine. Eppure sappiamo di essere lì (o qui), altrimenti stiamo solo sognando.
E' difficile, perchè siamo coscienti, ma perdiamo la coscienza di noi stessi.
E' difficile, perchè siamo coscienti, ma perdiamo la coscienza di noi stessi.
E' uno stato magico, un nirvana, che può durare solo qualche minuto. Alla fine, con un sospiro, ci ridestiamo, e rientriamo nella Vita.
Ecco come Pessoa, magistralmente, descrive questo passaggio.
Ecco come Pessoa, magistralmente, descrive questo passaggio.
Da "Il libro dell'inquietudine".
Nella leggera foschia
del mattino di mezza primavera, la Baixa si risveglia intorpidita e il sole si
direbbe che sorga lentamente. C’è una calma allegria nell’aria ancora mezza
fredda, e la vita, al soffio lieve della brezza che non c’è, rabbrividisce
vagamente per il freddo ormai passato, più per il ricordo del freddo che per il
freddo in sé, per il confronto con l’estate ormai prossima più che per il tempo
attuale.
I negozi, eccetto
latterie e bar, non hanno ancora aperto, ma il riposo non è fatto di torpore,
come alla domenica; è riposo soltanto. Una scia dorata si preannuncia nell’aria
che comincia a schiarirsi, e l’azzurro si colora pallidamente attraverso la bruma
che si assottiglia.
I primi movimenti
spuntano radi per le strade, risalta la distanza dei passanti, e fra le poche
finestre aperte, in alto, albeggiano anche delle figure. I tram disegnano a
mezz’aria la loro traccia mossa, gialla e numerata. E, di minuto in minuto, le
vie prendono a ripopolarsi.
Con la sola attenzione
dei sensi, girovago senza pensiero né emozione. Mi sono svegliato presto; sono
uscito in strada senza alcun intento. Osservo come profondamente assorto. Vedo
ed è come pensare. E un leggero velo d’emozione si alza assurdamente dentro di
me; la bruma che fuori svanisce sembra infiltrarsi lentamente dentro di me.
Non volendo, sento di
essermi messo a pensare alla mia vita. Non me ne sono accorto, ma è successo.
Credevo soltanto di vedere e sentire, di non essere altro, durante tutto questo
mio tragitto ozioso, che un riflettore di immagini prese dall’esterno, un
paravento bianco dove la realtà proietta colori e luce anziché ombre. Invece,
senza saperlo, ero qualcosa di più. Ero ancora l’anima che si nega, e lo stesso
mio astratto osservare era una negazione.
Scurisce l’aria per la
mancanza di nebbia, scurisce di una luce pallida, nella quale sembra essersi
infiltrata la nebbia scomparsa. Mi rendo improvvisamente conto che il rumore è
molto aumentato, che ci sono molte più persone. L’andatura degli altri passanti
è meno affrettata. A rompere la propria assenza e la minor fretta degli altri,
ecco l’andare sollecito delle pescivendole, il dondolio dei panettieri, resi
mostruosi dalla loro cesta, mentre l’uniformità diversificata delle venditrici
di tutto il resto varia soltanto nel contenuto delle ceste, dove, più che le cose,
cambiano i colori. I lattai scuotono, come paradossali mazzi di chiavi vuote, i
bidoni disuguali del loro mestiere errante. I poliziotti languono agli incroci,
immobile smentita della civiltà al movimento impercettibile del farsi del
giorno.
In questo momento, come
vorrei essere qualcuno che vede tutto questo senza però avere con niente di
tutto ciò alcun rapporto se non il vedere – contemplare le cose come se fossi
il viaggiatore adulto appena giunto alla superficie della vita! Non aver
imparato, dalla nascita in poi, a conferire un senso già dato a tutte queste
cose, ma poter distinguere fra l’espressione che tutte queste cose hanno e
l’espressione che gli è stata imposta. Poter riconoscere nella pescivendola la
sua realtà umana a prescindere dal fatto che la si chiami pescivendola, e che
si sappia che esiste e vende. Guardare il poliziotto come lo vede Dio.
Notare tutte le cose
come per la prima volta, non in senso apocalittico, di rivelazione del Mistero,
ma direttamente, come fioriture della Realtà.
Risuonano i rintocchi
della campana o dell’orologio grande: non li conto ma devono essere otto. Mi
ridesto di fronte alla banalità che esistano le ore, sbarre che la vita sociale
impone alla continuità del tempo, frontiera nell’astratto, limite nell’ignoto. Mi
ridesto e, vedendo che tutto è ormai pieno di vita e dell’abituale umanità, mi
rendo conto che la nebbia, ormai completamente svanita
dal cielo, tranne qualche lembo non ancora perfettamente azzurro rimasto ad
aleggiare nell’azzurro, mi ha davvero impregnato l’anima, ed ha allo stesso
tempo intriso quel lato recondito di tutte le cose attraverso il quale esse entrano
in relazione con la mia anima. Ho perso la visione che avevo. Ci vedo ma sono
cieco. Ormai le mie percezioni sono influenzate da una banale consapevolezza.
Questa ormai non è la Realtà: è semplicemente la Vita.
…Sì, la vita che pure
mi appartiene, e alla quale anch’io appartengo; non già la Realtà, che
appartiene solo a Dio o a se stessa, che non contiene né mistero né verità, che
(proprio perché è reale o finge di esserlo) forse da qualche parte esiste
fissa, affrancata dal tempo o dall’eternità, immagine assoluta, idea di un’anima
esterna.
Dirigo i lenti passi
(più rapidamente di quanto creda) verso il portone da cui risalirò in casa. Ma
non entro; esito; proseguo. Praça da Figueira, sbadigliando variopinti
venditori, affollandosi dei soliti clienti, occlude il mio orizzonte di deambulante.
Avanzo lentamente, morto, e la mia visione non è più la mia, non è più nulla: è
soltanto quella dell’animale umano che ha ereditato, involontariamente, la
cultura greca, l’ordinamento romano, la morale cristiana e tutte le altre
illusioni che formano la civiltà all’interno della quale io sento.
Dove saranno i vivi?
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